Page 11 - Milano Periferia
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CINQUANT’ANNI FA
Non so se tutti si rammentano, ambrogini e non, comunque cisalpini, ceno-
mani o reti che sia, che a Milano la periferia seguiva pressapoco la prima
cintura tranviaria (29-30), chiamata la circonvallazione per antonomasia
ed era a un tiro di schioppo dal centro. Poco dopo l’Arco della Pace, oltre
forse un cinquecento metri lungo il corso Sempione chiamato la " Napo-
leona ", il nome che, come scriveva Savinio, pareva alludere più a una
ostessa cicciosa e gigantesca, trovavi la campagna dominata dalla vista
del Resegone, i sentieri tra il verde e i fossi con acque tanto limpide da
prestarsi per bagni salutari; e così per Via Ripamonti e al di là del ponte
S. Luigi il tessuto urbano subito si sfilacciava essendo considerata questa
la zona meno salubre, la più bassa (in verità di pochi metri) e la più
nebbiosa: trovavi subito gli straccivendoli o "rôttammatt ", con i sobbor-
ghi dimessi del pallido, misterioso regno della Vettabbia.
Il "Gamba de legn", eseguiva sbuffando l’ultimo suo spettacolare caro-
sello tra Viale Cirene e Viale Lazio, allora un pianoro alberato, scuoten-
dosi la stanca polvere raccolta nel viaggio dal profondo Sud; mentre il
Morimondo, bel nome favoloso, non distante da Porta Ludovica attirava
per il suo sussistere di paesino pittoresco in seno alla città, dove di buon
grado andavi a passeggiare a piedi o in bicicletta, sostando magari in
qualche sua trattoria a mangiare il pesce delle rogge, che era squisito.
E nei luoghi della vecchia Fiera Campionaria, tra Porta Nuova e Porta
Venezia, i bastioni sfoggiavano ancora grazie fronzute, aspetti da giardino
d’Armida: Stendhal redivivo avrebbe ritrovato ancora, aperta la portiera
del calesci, il romantico itinerario dedicato alle sue donne corteggiate,
che contestavano in sordina il "rivoluzionario" Napoleone, colpevole del
freddo di Milano!
Ma chi erano gli abitanti della periferia cara alla memoria? Gli operai
innanzitutto (o "operari" nel dialetto, quando "lavoradori" non era
ancora un sostantivo sindacalizzato), i bottegai, gli artigiani del legno,
del ferro battuto -qualcuno forse rammenterà il Cesare di Via Canoni-
ca - i calzolai abili nel costrutto paziente delle scarpe a mano, i deco-
ratori d’interni o "pitòr", gli ebanisti o "lustron", i castagnacciari to-
scani il cui re era il famoso "Gigi della Gnaccia", i "sôstrée", "i pat-
tée": variopinta, sapida umanità di lavoranti, venuta ad aggiungersi a
quella delle popolari ottocentesche ringhiere, che già avevano avviato ver-
so il 1850 la "contaminatio" tra società urbana e società agreste, antici-
pando in modo geniale l’architettura comunitaria, l’edificio ambrosiano per
eccellenza sia a Porta Ticinese che al Borgo San Gottardo, a Porta Vigen-
tina e a Porta Genova, e organizzando la difesa delle milanesi "arti
minori".
Soprattutto gli operai erano i padroni della vecchia periferia. Sciamavano
a migliaia indossando il loro "toni" e calzando gli zoccoli nell’arco tra
le stazioni della Bovisa, di Greco, di Sesto e la Bicocca per recarsi nelle
fabbriche, sorte fin dal periodo austriaco e poi con l’ascesa della sinistra,