Page 17 - Milano Periferia
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Bisogna anche dire (e sarei contento di sbagliarmi) che mai fino al ‘76 ci
sono state leggi di urbanistica sociale, come in certi altri paesi stranieri,
in nome delle quali fosse lecito appellarsi più radicalmente contro la spe-

culazione privata.

In più di trent’anni di vita politica democratica la nuova periferia in con-
fronto a quella di ieri esprime la dissonanza, la casualità, l’informale erut-
tato dagli estemporanei sussulti d’un cratere. Il "Bauhaus" é stato fon-
dato per nulla, molti urbanisti e sociologi impegnati hanno scritto pagine
mirabili, escatologie lucubrate e in fondo ottimistiche sullo sviluppo razio-
nale e armonioso della città "a misura d’uomo": vengano a vedere lor
signori come la realtà li abbia sconfitti. La periferia di Milano come prova
di belle teorie negate non si distingue più da quella di Torino e di altre
città industriali sparse nel mondo: sta lì derelitta a testimoniare un popolo
ghermito per la gola, a cui é mancato il tempo di programmare il proprio
sviluppo, sta li a testimoniare l’incapacità di autogestire un proprio spa-
zio architettonico, premettendo la comunità all’interesse privato, sta lì a
testimoniare dei bisogni affrontati singolarmente, quando sono arrivati a
un punto di crisi e di rottura, sta li a testimoniare la frenesia della soprav-
vivenza immediata, l’urgere del momento, in cui la casa occorre comun-
que sia per non morire dissanguati dai falchi che calano sul suolo nazio-
nale che dovrebbe essere patrimonio collettivo, sta lì a testimoniare il
cinismo o forse il menefreghismo degli altodirigenti ed anche la albagia
retrograda, in quanto sorda alla socialità di certi architetti nostrani, ma-
lati ancora di formalismo rinascimentale e di carrierismo, refrattari al
lavoro d’équipe, inguaribili nel perseguire una volontà ambiziosa di "ca-
polavori" letteralmente assoluti, sta lì a testimoniare la malafede e la
buaggine di molti amministratori locali, adusi al compromesso clientelare
o elettorale, così da aumentare a piacimento le possibilità abitative dei
condomini sorgenti sui loro suoli, sta lì a testimoniare, secondo il giudizio
amaro e puntuale di A. Cederna, il preistorico ordinamento giuridico in
materia fondiaria per cui il diritto di edificare sarebbe connaturato col
diritto di proprietà, "così che l’Italia coi suoi trenta milioni di ettari po-
trebbe legalmente ospitare tre miliardi e passa di abitanti, quanti sono
oggi sparsi sull’intero pianeta", sta lì a testimoniare un aggregato urba-
no disatomizzato e frantumato, così come l’ha voluto il potere invisibile
e sovrano delle Immobiliari, sta lì a testimoniare insomma la fine, il disfa-
cimento della città non tanto come utopia d’un organismo monocentrico,
ordinato e statico, attorno alla croce del cardo e del decumanus, con le
sue porte e le sue mura (tale fu fin dall’antica Grecia all’800), quanto la
fine d’un possesso, l’impossibilità non dico di viverla, ma di vederla, di
accettarla, di percorrerla pur in mezzo alla selva delle frecce indicative,
perfino di amministrarla, tanto essa città é cresciuta senza un controllo
razionale, tanto si evolve a macchia d’olio iperedificandosi e insieme auto-
divorandosi.

La periferia di oggi nega anche l’equilibrio di rapporti tra suolo, acque,
atmosfera, vegetali e animali. Dopo avere espropriato la cultura, ha espro-
priato ,anche la natura, diseducando al suo rispetto i giovanissimi, e quel
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